#rispetto della tradizione
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Rivoli (Torino) dedica uno spazio al Beato Rolando Maria Rivi, giovane martire e protettore dei seminaristi
Fratelli d’Italia propone l’intitolazione di un’area cittadina al seminarista martire, un simbolo di fede e dedizione per i giovani di oggi
Fratelli d’Italia propone l’intitolazione di un’area cittadina al seminarista martire, un simbolo di fede e dedizione per i giovani di oggi. Il 28 ottobre 2024, il gruppo consiliare di Fratelli d’Italia di Rivoli ha presentato una mozione per intitolare uno spazio cittadino al Beato Rolando Maria Rivi, giovane seminarista ucciso a soli 14 anni durante la Seconda Guerra Mondiale per la sua fede.…
#anti-clericalismo#beatificazione 2013#Beato Rolando Maria Rivi#Cardinale Fossati#città di Rivoli#commemorazione religiosa#comunità cattolica#educazione alla fede#eredità spirituale#fede e coraggio#Federico Depetris#Fratelli d’Italia#giovani cattolici#Giovani generazioni#giovani seminaristi#intitolazione spazio pubblico#ispirazione per i giovani#istituto Darwin#istituto Romero#Italia#martire cristiano#martiri cristiani#martirio#Memoria storica#Papa Francesco#rispetto della tradizione#Rivoli#Seconda guerra mondiale#seminario arcivescovile#seminaristi e ministranti
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Il maturo e il bamboccione social si rendono ambedue conto dell'evidenza (è già un passo avanti rispetto al sinistro che con la realtà confligge): siamo colonizzati, culturalmente e tecnologicamente, dagli Stati Uniti.
Il bamboccione sociale frigna offeso (reagisce da socialista, lotta contro gli stessi nemici dei socialisti: è un socialista, a sua insaputa) e pretende di mandar a casa i 'Mericani senza distinzioni, senza poterselo permettere; né ammette di dover pagare un conto salatissimo per farlo, sia pure in prospettiva lontana (assieme a chi? Da soli che manco Mussolini?! O coi francotedeschi?!!). 'Sti qui credono davvero che barconi e sbarchi e terroristi e Putain si fermino dicendogli "basta là".
Il maturo invece accetta il dato di fatto sopra detto, dopo essersi guardato attorno e compreso in trenta microsecondi che trattasi del menopeggio in assoluto: é il sistema socioculturale economico più avanzato e civilizzato disponibile oggi, diretto erede della NOSTRA tradizione grecoromana giudaicocristiana. Poteva andar molto peggio, a guardare cos'altro c'è in giro.
Il maturo s'impegna comunque per sradicare ed aggiustare gli eccessi di detto colonialismo, dall'interno, senza ansie vivoluzzionavie, affermando la propria identità locale ma godendo dei suoi aspetti positivi innovativi: cultura del lavoro, libertà individuale, innovazione tecnologica senza paure da provinciali, dinamismo sociale no "figli di", liberismo non quello dei "veriliberali" ma scevro da socialismi pelosi etc..
Tali aspetti positivi li usa inoltre per tagliar le unghie ad altri colonialismi culturali precedenti spacciati come parte dell'identità: tipo il borbonismo magnogreco social statalista assistenzialista, l'europismo crucco nordico statal puritano o l'anglofranconismo coi sensi di colpa coloniali.
Eh si, la cultura come le persone ha costante bisogno di MODELLI e MENTORI cui ispirarsi, non copincollare, per evolversi. Il passato è passato come il successo è già successo: si celebrano e ricordano ma senza mai fermarsi. Per fortuna i modelli di riferimento li sceglie il mercato, la cosa più democratica che c'è, mentre ogni forzatura dall'alto distorce, fa sbandare e produce solo costosi ritardi.
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💡 👉 L'ultimo saluto qualche anno fa a Raffaella Carrà è stato anche l'ultimo saluto da un paese scomparso
Quando la Carrà ti accoglieva in prima serata con educazione e rispetto oltre alla professionalità, lei come i suoi esimi colleghi: Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Corrado oltre a tanti altri come Sandra Mondaini e Raimondo Vianello...guardare ( per chi ci riesce) la tv oggi dove tutto o quasi è volgare, politicamente corretto e quindi atto alla cancellazione della tradizione italiana ti fa venire in mente quelle prime serate.
Ti senti come trasportato in tempi passati: al fascino che avevano quei programmi probabilmente lo può capire solo chi è nato prima di questi ultimi anni di sfacelo, solo chi ha memoria e non ha perso la capacità di vedere la realtà.
La verità è che molti degli indigeni italiani che stanno morendo in questo paese guardano indietro con nostalgia quando si riunivano sul divano con tutta la famiglia: i bambini appena lavati, in pigiama o in accappatoio. Un'intera nazione unita davanti alla televisione per guardare un popolare spettacolo del sabato sera: una cosa del genere probabilmente non accadrà mai più.
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Il guscio della lumaca
Quali che siano le ragioni profonde del tramonto dell’Occidente, di cui stiamo vivendo la crisi in ogni senso decisiva, è possibile compendiarne l’esito estremo in quello che, riprendendo un’icastica immagine di Ivan Illich, potremmo chiamare il «teorema della lumaca». «Se la lumaca», recita il teorema, «dopo aver aggiunto al suo guscio un certo numero di spire, invece di arrestarsi, ne continuasse la crescita, una sola spira ulteriore aumenterebbe di 16 volte il peso della sua casa e la lumaca ne rimarrebbe inesorabilmente schiacciata». È quanto sta avvenendo nella specie che un tempo si definiva homo sapiens per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico e, in generale, l’ipertrofia dei dispositivi giuridici, scientifici e industriali che caratterizzano la società umana.
Questi sono stati da sempre indispensabili alla vita di quello speciale mammifero che è l’uomo, la cui nascita prematura implica un prolungamento della condizione infantile, in cui il piccolo non è in grado di provvedere alla sua sopravvivenza. Ma, come spesso avviene, proprio in ciò che ne assicura la salvezza si nasconde un pericolo mortale. Gli scienziati che, come il geniale anatomista olandese Lodewjik Bolk, hanno riflettuto sulla singolare condizione della specie umana, ne hanno tratto, infatti, delle conseguenze a dir poco pessimistiche sul futuro della civiltà. Nel corso del tempo lo sviluppo crescente delle tecnologie e delle strutture sociali produce una vera e propria inibizione della vitalità, che prelude a una possibile scomparsa della specie. L’accesso allo stadio adulto viene infatti sempre più differito, la crescita dell’organismo sempre più rallentata, la durata della vita – e quindi la vecchiaia – prolungata. «Il progresso di questa inibizione del processo vitale», scrive Bolk, «non può superare un certo limite senza che la vitalità, senza che la forza di resistenza alle influenze nefaste dell’esterno, in breve, senza che l’esistenza dell’uomo non ne sia compromessa. Più l’umanità avanza sul cammino dell’umanizzazione, più essa s’avvicina a quel punto fatale in cui progresso significherà distruzione. E non è certo nella natura dell’uomo arrestarsi di fronte a ciò».
È questa situazione estrema che noi stiamo oggi vivendo. La moltiplicazione senza limiti dei dispositivi tecnologici, l’assoggettamento crescente a vincoli e autorizzazioni legali di ogni genere e specie e la sudditanza integrale rispetto alle leggi del mercato rendono gli individui sempre più dipendenti da fattori che sfuggono integralmente al loro controllo. Gunther Anders ha definito la nuova relazione che la modernità ha prodotto fra l’uomo e i suoi strumenti con l’espressione: «dislivello prometeico» e ha parlato di una «vergogna» di fronte all’umiliante superiorità delle cose prodotte dalla tecnologia, di cui non possiamo più in alcun modo ritenerci padroni. È possibile che oggi questo dislivello abbia raggiunto il punto di tensione massima e l’uomo sia diventato del tutto incapace di assumere il governo della sfera dei prodotti da lui creati.
All’inibizione della vitalità descritta da Bolk si aggiunge l’abdicazione a quella stessa intelligenza che poteva in qualche modo frenarne le conseguenze negative. L’abbandono di quell’ultimo nesso con la natura, che la tradizione filosofica chiamava lumen naturae, produce una stupidità artificiale che rende l’ipertrofia tecnologica ancora più incontrollabile.
Che cosa avverrà della lumaca schiacciata dal suo stesso guscio? Come riuscirà a sopravvivere alle macerie della sua casa? Sono queste le domande che non dobbiamo cessare di porci.
23 maggio 2024
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Dall’eco-ansia all’eco-razzismo
Di Marcello Veneziani
L’angoscia si esprime oggi in due modi: ego-ansia ed eco-ansia. Siamo angosciati per l’io e per il pianeta; di tutto quel che sta nel mezzo – persone, famiglie, società, nazioni, popoli, culture, religioni, civiltà, umanità – ci interessa sempre meno.
L’eco-ansia è la patologia dei nostri giorni, una specie di infiammazione ecologica. I malati più acuti sono i ragazzi, poi vengono i media e tutti gli altri; ma ne patiscono anche alcuni ministri. La nuova linea di discriminazione tra i buoni e i cattivi, gli insider e gli outsider, è quella: se ti affibbiano il marchio di negazionista ambientale sei fritto, come il pianeta; hai perso ogni rispetto, non puoi coprire alcun ruolo, devi solo nasconderti.
Ma cos’è l’eco-ansia? E’ un fenomeno non solo italiano ma occidentale, trae suggestioni dal movimento di Greta Thunberg, però non nasce dal nulla: alcune emergenze ambientali e climatiche toccano reali alterazioni dell’eco-sistema. Quanto però queste dipendano dai comportamenti umani è da verificare: alcune di più (per es. la plastica nei mari), altre assai meno (i mutamenti nell’ecosistema). E poco dipendono da singoli stati e singoli paesi, di modeste dimensioni, come il nostro. L’eco-ansia è divenuto improvvisamente ossessivo, monomaniacale, con un giacobinismo ideologico e un fanatismo patologico.
Ma la sua motivazione originaria, la salvaguardia della natura in pericolo, è sacrosanta. Ed è più coerente con una visione del mondo conservatrice e tradizionale, in cui è un bene primario la difesa, il rispetto e l’amore per la natura, a partire dalla natura umana. Il legame profondo tra l’uomo e la terra, le sue radici, il suo habitat, i suoi luoghi originari e identitari sorgono non a caso in una concezione della tradizione, nei suoi legami spirituali e biologici, naturali e culturali. A lungo questa visione della natura ha trovato come suoi avversari il capitalismo e il comunismo, il mercato globale e la pianificazione statale socialista, figli entrambi della rivoluzione industriale, e legati entrambi a una visione utilitarista, produttivista e antinaturale. Alla fine degli anni ottanta, in Processo all’Occidente, analizzai questo scontro tra la difesa della natura e i suoi nemici ideologici, sovietici e mercantilisti.
Poi con gli anni è avvenuto qualcosa: da una parte l’insensibilità verso i temi della natura in pericolo da parte di una “turbo-destra” liberista e ipermercatista, dall’altra la sostituzione di madre natura con la maternità surrogata dell’ambiente, termine più asettico che può valere per qualunque habitat, anche una fabbrica. Da lì nasce il ménage à trois fra eco-ansia, progressismo radical e capitalismo “eco-sostenibile”.
Il risultato che ne è derivato è questo ambientalismo allarmato, antinatura, ideologico e funzionale al nuovo capitalismo globale e allo sfruttamento del business ambientale. Al massimalismo ideologico e al suo profitto politico si unisce così l’eco-speculazione. La strategia pubblicitaria delle grandi aziende alimentari non vanta più le qualità dei prodotti ma il fatto che siano eco-sostenibili; vantano la loro buona coscienza ecologica oltre alla buona coscienza ideologica (gli spot con dosi obbligate di mondo verde, ma anche nero, gay e arcobaleno). Il pregio principale del prodotto è che non nuoce all’ambiente ed è ideologicamente conforme; non conta la qualità del cibo ma i rifiuti e gli effetti ideologici derivati. All’industria del food eco-sostenibile si è aggiunta la cosmesi e la moda eco-sostenibile; grandi marchi vendono vestiari, scarpe, creme eco-sostenibili. L’eco-sostenibile leggerezza dell’essere… Ma il core business dell’eco-ansia è nei farmaci, nella sanità e nelle cure psicanalitiche. Viene monetizzata l’ansia. Per non parlare della riconversione verde dell’industria e delle case, dei trasporti e dell’energia. Un business enorme sullo spavento diffuso e sulle nuove norme obbligate da adottare.
Sulla nuova pandemia chiamata eco-anxiety e sul suo target giovanile, ho scritto nel recente libro Scontenti. L’eco-ansia investe la salute mentale; vi si accompagna un disturbo psichico chiamato solastalgia, generato dal cambiamento eco-climatico. I sintomi e gli effetti dell’eco-ansia sono: attacchi di panico, traumi, depressione, disturbi da stress, abuso di sostanze, aggressività, ridotte capacità di autonomia e controllo, senso d’impotenza, fatalismo e paura, spinta al suicidio. E un grande senso di colpa ambientale. Il popolo degli eco-ansiosi reputa il futuro “spaventoso”.
Gli eco-ansiosi sono considerati malati virtuosi, i loro disturbi sono ritenuti lodevoli perché denotano sensibilità green. I colpevoli invece sono quegli adulti che hanno così malridotto il pianeta e non patiscono eco-ansia. L’umanità viene nuovamente divisa in buoni e cattivi, e dopo i no-vax, i no-war, ecco i no-eco: da una parte le vittime gli eco-ansiosi, dall’altra i negazionisti, gli eco-mostri, che minimizzano il problema da loro creato.
La follia ulteriore di questa drammaturgia ambientale è che non produce effetti concreti sull’ambiente: una volta esaltata la minoranza benemerita degli eco-attivisti e vituperata la minoranza maledetta degli eco-negazionisti, non viene fuori alcun risultato pratico in tema di degrado ambientale. Si è solo usata un’ennesima discriminazione ideologica per sostenere un nuovo, manicheo eco-razzismo da cui trarre profitto politico. Allo stesso tempo l’eco-ansia dirotta il mondo dalla realtà: l’incubo è il clima, concentriamoci sul riscaldamento globale, il resto è irrilevante o meno urgente. Non pensate più all’economia e alla politica, alla società reale e all’economia, alla famiglia e alle ingiustizie, alla disumanizzazione e alla fine della civiltà; è in ballo il pianeta da salvare. Tra l’io e il pianeta c’è di mezzo il vuoto; di quello spazio se ne occupa la governance globale. Voi pensate al clima, agli animali e ai ghiacciai, e al vostro io angosciato. Il mondo si va disumanizzando, ma il tema su cui concentrarsi è il clima. L’importante è salvare il pianeta; e se l’umanità è di ostacolo, salviamo il pianeta anche a prezzo dell’umanità.
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L'amore se ne frega.
Ho accumulato ormai un bel mucchio di anni nello studio, tali e tanti da poter testimoniare alcune verità, conosciute ma tacitate, che attraversano il vivo dell'esperienza degli uomini, e delle donne.
L'amore, che vuole 'Ancora', è a scapito di ogni cosa. L'amore comporta una perdita delle relazioni umane, un calo nelle gerarchie sociali, una discesa nel potere di acquisto.
L'amore, e le sue conseguenze, se ne frega di ogni convenzione.
Dove vissuto intensamente, sino alla fine, quand'anche durasse un solo giorno, l'amore per una persona fa a meno degli orari di lavoro, dei tempi, del rispetto delle regole convenzionali.
L'amore prende treni andata e ritorno in giornata, sale su aerei senza poterli pagare se non a costo i sacrifici immani.
L'amore infrange tutta quella serie di asfittiche regole, normali, utili, normalizzanti, necessarie alla vita, al lavoro, al progresso.
Quando è vero, quando cioè diventa fine e tensione della vita stessa, vale sempre la pena.
'Valeva la pena uscire da quella riunione di lavoro e perdere la promozione'? ' Ah si, dottore. Lui era la sotto con i fiori, e mi ha portato via'
' Oggi il suo stipendio è assai basso'
'Si, ma quel momento valeva una vita intera.
Non potevo perderlo '
'Valeva la pena accettare l'invito di quella donna, pur sapendo dei precedenti, del carcere?
' Si dot, la mia famiglia mi ha cacciato via, quasi diseredato, ma non avrei ma potuto dirle di no.
Rinunciare all'amore per convenzione per morale, per costume, per tradizione familiare, perché 'non si deve', non è ' giusto'.
Perché questo ,quell'altro, priva la vita di quell'attimo incandescente che , da solo, rappresenta una luce che illumina l'universo.
Dopo il big bang, l'universo divenne freddo, tetro, gelato ed infinito.
Ma quel bagliore valeva tutto.
I casi suddetti, e altre mille ne potrei citare, conducono oggi vite non ricche, non visibili. Molti di essi hanno difficoltà economiche, a causa delle loro scelte.
Ma sono vite piene, colme.
Dire no all'amore per la convenzione, come accade nella maggior parte dei casi, conduce ad una vita mediocre, normale, normalizzata. Ricca, spesso agiata, confortevole. Rispettabile.
Nei canoni.
Ma quando giunge l'autunno della vita, il lungo e freddo periodo del rimpianto, questo viene quasi tutto speso nel rammarico, nella dannazione di aver lasciato per strada l'amore, vero. Il declino dell esistenza diviene un lungo prodomo alla morte, vissuta come una liberazione. Nessuno immagina quanti uomini e donne in questa deriva passano nello studio di un analista.
Questo è in nuce il discorso che stamattina, farò ad un emittente radiofonica che mi ha invitato , il link della quale metterò solo dopo essermi accertato che si apra, vista la mia nota dabbenaggine nel indicare link che poi si aprono in punto cieco.
Come sempre, psicoanalisi e desiderio.
Mentre tutta l'intellighenzia vi blatera, in tv, ' fate i bravi, siate monogami, siate fedeli anche quando tutto è morto. Obbedite, lasciatevi giudicare', la forza sovversiva del desiderio indica la strada opposta. Come diceva Freud ' noi portiamo la peste'
Molla tuto, alzati in piedi, corri giù dalle scale.
Vai incontro a chi ti sta aspettando, non corre il rischio di perderlo.
Insomma, vatti a prendere l'amore, ovunque esso sia.
Vi ricordate la ' Canzone di Carla' ?
George si innamora di Carla, e per lei compie azioni inconsulte, al punto di fermare un autobus per farle fare un giro. La ditta lo riprende e lo licenzia.
Ma quella scena, vale tutto il film.
Maurizio Montanari
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Storia Di Musica #293 - The Waterboys, Fisherman's Blues, 1988
And I am the Water Boy\The real game’s not over here. Nel 1973 Lou Reed pubblica Berlin, album seminale, oscuro, profondissimo e nella canzone The Kids compare il verso che ho appena scritto. Sarà lo spirito scozzese, così abituato alla poetica e selvaggia bellezza di quella terra, ma come per la vicenda dei Deacon Blue quel verso diviene una scheggia di passione che colpisce lo spirito di un giovane ragazzo di Edimburgo, che si appassiona alla musica. La capitale scozzese è tutt’altra città rispetto a Glasgow e ha dei particolari piuttosto noti a noi, dato che è attraversata da un fiume (anzi sorge all'insenatura (firth) creata dall'estuario del fiume Forth) e si sviluppa su sette colli (Arthur’s Seat, Calton Hill, Castle Rock, Corstorphine Hill, BVarids Hill, Blackford Hill, Craiglockhart Hill). Mike Scott è un poeta e cantante di Edimburgo, che per un po’ di tempo vive a Ayr, sulla costa occidentale della Scozia. Nel 1977 fonda una fanzine, una rivista autoprodotta dedicata ai propri idoli musicali, e il titolo, Jungleland, porta subito a pensare a Springsteen, Dylan, l’astro nascente in quegli anni Patti Smith. Istrionico, fonda un gruppo, gli Another Pretty Face e una etichetta discografica, la Chicken Jazz, che subito viene acquistata dalla Virgin di Richard Branson, che vedrà in questo ragazzo del potenziale altissimo, e non sbaglierà, dato che Scott sarà personaggio dai complessi risvolti e una delle figure più interessanti del panorama musicale degli anni ’80. Dopo varie esperienze, tra cui delle serate con Lenny Kane a New York, torna in Inghilterra e decide che chiamerà il suo gruppo The Waterboys proprio in omaggio alla canzone di Lou Reed.
Eppure musicalmente ci sono delle profonde differenze rispetto a quel disco mitico: Scott è affascinato da una certa idea di folk con contaminazioni rock, già fatta da gruppi leggendari come i Fairport Convention di Richard Thompson negli anni ' 60 e ’70. Il primo nucleo dei The Waterboys era composto dal sassofonista Anthony Thistlethwaite, Norman Rodger al basso, Karl Wallinger alle tastiere, Preston Heyman alla batteria oltre a Scott che suona la chitarra, il mandolino e altri strumenti. Con questa formazione si presentano ad una famosa Peel Session nel 1983 alla BBC, dove suonano il loro primo successo, A Girl Called Johnny, brano tributo a Patti Smith che entrerà a far parte nel luglio dello stesso anno di The Waterboys: già c’è la miscela interessantissima di musica in bilico tra folk e rock, equidistante da Van Morrison e dal rock epico post new wave. Più rock è A Pagan Place, del 1984, famoso per un brano, Church Not Made With Hands. Scott è ancora alle prese con una sua definizione di musica, anzi di una “big music”, che si leghi sia alla tradizione, ma che abbia un tocco personale unico e distintivo. Si ritira ai Park Gates Studio di Hastings, celebre luogo di una battaglia, ed inizia a pensare alla sua visione della musica, che parte sempre dal misticismo caledonico di Van Morrison ma stavolta vira con decisione verse le tinte fosche dei Velvet Underground, fino alla musica minimale (Scott dichiarerà di essersi ispirato a Steve Reich). This Is The Sea (1985) seppur con brani registrati in presa diretta, è un sottile gioco di strumenti e voci sovrapposte, in una rielaborazione in chiave celtica del wall of sound spectoresco, con l’aggiunta di testi profondissimi, che affascinarono un’intera generazione di musicisti. Il risultato è splendido. Ma Scott è tipo lunatico e quando sembra sul punto di spiccare definitivamente il volo, si prende una nuova lunga pausa dove, spostandosi a Dublino, inizia a rielaborare i suoi capisaldi. Si tuffa nella musica popolare e tradizionale di Scozia e Irlanda, e con l’aiuto di nuovi innesti, centrale quello di Steve Wickham al violino, nel 1988 pubblica il capolavoro atteso, uno dei dischi più belli degli anni 80.
Fisherman’s Blues è un album folk, ma che dalla tradizione si muove con estrema eleganza verso sonorità fresche, nuove, in un connubio che solo la genialità di Scott poteva costruire. L’apertura con la title track già da sola è euforia e classe, come la lunga e ipnotica We Will Not Be Lovers, tutta giocata su un riff di violini (canzone iconica). Le onde dell’oceano, le colline verdi, i muretti di pietra a delimitare i pascoli, i colori selvaggi e accesi sono sempre lì, tra una strepitosa cover di Sweet Thing di Van Morrison (da Astral Week) e addirittura il folk politico di This Land Is Your Land di Woody Guthrie. La musica da pub irlandese esplode nella stupenda And A Bag On The Ear (che è l’equivalente irlandese per un bacio sulla guancia italiano) che parla di un amore nato sui banchi di scuola. E come non adorare il sottile andare di When Will We Be Married. Se non si è ancora sazi di colline verdi smeraldo, atmosfere con l’odore tostato di birra stout, dell’affumicato di un single malt torbato e di semi di lino da sgranocchiare, c’è il colpo di grazia: un duetto tra Scott e Tomás Mac Eoin, uno dei più famosi cantanti di Sean-nós, che è un particolare stile di canto gaelico irlandese, che recitano e cantano William Butler Yeats nella indimenticabile The Stolen Child. Scott registrò così tanto materiale che solo nel 2006 ripubblicò l’album con la sua intera idea, che comprendeva ancora cover di Dylan, traditional e altre piccole meraviglie (tipo Let Me Feel Holy Again o l’altrettanto strepitosa You In The Sky). Scott, chiamato da attese spasmodiche, ritornò con lo stesso stile musicale nel 1990 con Room To Roam, che nei piani del cantante, risponde appieno all'attuale percorso musicale, che in onore al traditional The Raggle Taggle Gypsy Scott definisce raggle taggle music. Poi, inaspettatamente, virò verso un suono quasi hard rock (Dream Harder, nome omen, del 1993). E dopo una virata così inaspettata, ecco che, nella sua migliore tradizione personale, scioglie il gruppo e si prende l’ennesima e stavolta davvero lunghissima pausa, un decennio fino al 2000 quando ritorna a scrivere insieme ad altri musicisti nuovi capitoli di una saga nata 20 anni prima. Un geniale lunatico.
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Le Pleiadi erano sette sorelle: Maia, Alcione, Asterope, Celeno, Taigete, Elettra e Merope. Figlie di Atlante, il titano a cui Zeus aveva affidato il compito di sostenere la Terra, e di Pleione, la dea protettrice dei marinai.
In seguito a un fortuito incontro con Orione, le Pleiadi e la loro madre diventano preda del cacciatore. Per proteggerle dagli assillanti assalti amorosi di lui, Zeus le tramuta in colombe e le libera in cielo. Si dice anche che Zeus fosse il padre di tre delle sorelle.
Le Sette sorelle sono spesso associate a figure marine per questo simboleggiano i mari, le acque, i fiumi, la pioggia e il gelo. Conosciute anche con il nome di Oceanidi, alcune fonti rivelano che il loro nome derivi dall’antico termine greco plein, ossia navigare.
Maia – è la maggiore delle sorelle nota per la sua straordinaria bellezza e per la sua vita solitaria. Nonostante fosse molto bella, era una donna timida e riservata che prediligeva la solitudine e viveva da sola in una caverna. Il suo nome significa “madre” in latino, ma racchiude anche il significato di “fecondità”, perciò i Romani la consideravano la dea della primavera da cui deriva il nome del mese di maggio.
Alcyone (Ally) – è la seconda delle sorelle, ma è conosciuta per essere la più forte. Durante i giorni di Alcione, quando il mondo era pervaso di gioia, prosperità e quiete, lei vegliava sul Mar Mediterraneo rendendolo sicuro per i marinai. Sposata con Ceice, re della Tessaglia, i due ingannarono Zeus ed Era, facendosi passare per loro. Zeus per vendicarsi, aspettò che i due si separassero, per scatenare una tempesta che affondò la nave di Ceice che morì affogato.
Asterope (Stella) – è il nome greco per “stella” e viene rappresentata, nella tradizione, come la più debole delle sorelle proprio a causa della sua ridotta luminosità. Fu la madre di Enomao, figlio di Ares, dio della guerra. In altre versioni del mito invece è la moglie dello stesso Enomao da cui ebbe quattro bambini.
Celeno (Ce-Ce) – significa “melone” o “scuro”. Proprio come Asterope, la sua luminosità è ridotta, rispetto alle altre, perché si narra sia stata colpita dal fulmine di Theo. Ebbe numerosi figli: Lico (il lupo) e Chimera (in parte leone, drago e capra) da Prometeo; nonché Lico e Nicteo da Poseidone, dio del mare.
Taigete (Tiggy) – la mitologia vuole che vivesse in solitudine tra le montagne come la sorella Maia. Artemide, il suo amato, la tramutò in colomba così da sfuggire all’amore che Zeus nutriva nei suoi confronti. Anche Ercole provò a sedurla.
Elettra – nota per essere la terza stella più brillante della costellazione, ebbe quattro figli tra cui Dardano, fondatore della città di Troia. In alcune storie si narra che Elettra fosse la “Pleiade perduta”, poiché scomparve in seguito alla caduta di Troia e alla morte del figlio.
Merope (la sorella perduta) – fu l’ultima stella a essere mappata dagli astronomi perché invisibile a occhio nudo. Tra le più belle della costellazione, è soprannominata la “stella perduta” per aver nascosto il volto dalla vergogna di essere sposata a un mortale, Sisifo. Altri dicono che si vergognasse perché Sisifo era un criminale, la cui pena era spingere un pesante masso in cima a una vetta che poi rotolava sempre giù. La somiglianza con il padre di Merope, Atlante, che doveva sopportare sulle spalle il peso del mondo, è molto chiara. Lucinda Riley seven sisters by MelekatosheeOleak ************************ The Pleiades were seven sisters: Maia, Alcyone, Asterope, Celeno, Taigete, Electra and Merope. Daughters of Atlas, the titan to whom Zeus had entrusted the task of supporting the Earth, and of Pleione, the patron goddess of sailors.
Following a chance meeting with Orion, the Pleiades and their mother become the hunter's prey. To protect them from his nagging amorous assaults, Zeus turns them into doves and releases them into the sky. It is also said that Zeus was the father of three of the sisters.
The Seven Sisters are often associated with marine figures for this reason they symbolize the seas, waters, rivers, rain and frost. Also known by the name of Oceanides, some sources reveal that their name derives from the ancient Greek term plein, that is to navigate.
Maia – is the eldest of the sisters known for her extraordinary beauty and for her solitary life. Although she was very beautiful, she was a shy and reserved woman who preferred solitude and lived alone in a cave. Her name means "mother" in Latin, but also contains the meaning of "fecundity", therefore the Romans considered her the goddess of spring from which the name of the month of May derives.
Alcyone (Ally) – is the second of the sisters, but she is known to be stronger than her. During the days of Alcyone, when the world was full of joy, prosperity and peace, she watched over the Mediterranean Sea making it safe for sailors. Married to Ceyx, king of Thessaly, the two deceived Zeus and Hera, pretending to be them. Zeus to take revenge, waited for the two to separate, to unleash a storm that sank Ceyx's ship who drowned.
Asterope (Stella) - is the Greek name for "star" and she is traditionally represented as the weakest of the sisters precisely because of her reduced brightness. She was the mother of Oenomaus, son of Ares, god of war. In other versions of the myth she is the wife of Oenomaus himself, with whom she had four children.
Celeno (Ce-Ce) – means “melon” or “dark”. Just like Asterope, her luminosity is reduced, compared to the others, because she is said to have been struck by Theo's thunderbolt. She had numerous children: Lico (the wolf) and Chimera (partly lion, dragon and goat) by Prometheus; as well as Lico and Nicteo from Poseidon, god of the sea.
Taigete (Tiggy) – mythology has it that she lived alone in the mountains like her sister Maia. Artemis, her beloved, turned her into a dove so as to escape the love that Zeus had towards her. Hercules also tried to seduce her.
Electra – known to be the third brightest star in the constellation, she had four children including Dardanus, founder of the city of Troy. In some stories it is said that Electra was the "Lost Pleiad", as she disappeared following the fall of Troy and the death of her son.
Merope (the lost sister) – was the last star to be mapped by astronomers as invisible to the naked eye. Among the most beautiful of the constellation, she is nicknamed the "lost star" for having hidden her face from the shame of being married to a mortal, Sisyphus. Others say she was ashamed because Sisyphus was a criminal, whose punishment was to push a heavy boulder to the top of a peak which then always rolled down. The resemblance to Merope's father Atlas, who had to bear the weight of the world on his shoulders, is very clear. Lucinda Riley seven sisters by MelekatosheeOleak
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Anadolu Kavağı
La fonte più importante sulla storia di Anadolu Kavağı è rappresentata dall'opera di Evliya Çelebi, intitolata Seyahatname, che descrive un insediamento costiero abitato da circa 800 famiglie e dotato di un vasto porto capace di ospitare tra le 200 e le 250 navi sia in inverno che in estate.
La sua importanza derivava principalmente dalla posizione strategica, che lo rendeva non solo un centro commerciale ma anche militare, poiché costituiva un punto di accesso al Mar Nero ed era anche un punto di controllo di frontiera e doganale.
Anadolu Kavağı è tuttora abitato principalmente da pescatori e, fino a poco tempo fa, la caccia al pesce spada costituiva la principale fonte di sostentamento per le famiglie locali. Tuttavia, è importante notare che la quantità di pesce spada è sensibilmente diminuita rispetto al passato.
Dal punto di vista storico, Anadolu Kavağı ha una ricca tradizione che risale all'epoca bizantina, quando la sua posizione strategica lo rendeva un importante avamposto difensivo lungo il Bosforo. Nel XIV secolo, durante il periodo dell'Impero Bizantino, il Castello Yoros fu costruito dai Genovesi proprio per consolidare il controllo sulla zona e proteggere l'accesso al Mar Nero. Nel corso dei secoli, il castello ha subito diverse modifiche e ampliamenti, riflettendo i cambiamenti di potere e le esigenze militari della regione. Durante l'era ottomana, il castello continuò a svolgere un ruolo chiave nella difesa della città di Istanbul. Oggi, il Castello Yoros rappresenta non solo un importante sito storico, ma anche un simbolo della ricca eredità culturale della regione.
La mia Vita a Istanbul: consigli e informazioni turistiche. Disponibile come GUIDA per delle ESCURSIONI in città.
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti
L'ICONOGRAFIA COSTANTINOPOLITANA
Con le prime due immagini ci si trova proiettati nella Basilica di San Vitale, a Ravenna, capitale della Prefettura d’Italia istituita dall’imperatore Giustiniano alla metà circa del VI secolo, dopo la rovinosa guerra greco-gotica, combattuta dall’esercito imperiale d’oriente contro gli ostrogoti occupanti la penisola e durata per oltre un ventennio. Una Ravenna già di tradizione imperiale, centro fortificato per via naturale da aree lacustri e paludose che ne rendevano impervio l’eventuale assedio e collegato, mediante il porto di Classe, direttamente a Costantinopoli lungo la rotta dell’Adriatico. Non è per caso, quindi, che la Chiesa di San Vitale ospiti queste due “apparizioni”, simboli rimasti inalterati della tecnica musiva antica, di per sé dotata di più robusta tempra rispetto alla tecnica pittorica. Se la “religio” è unione e il sacro è separazione, Giustiniano e la sua corte incarnano entrambe le dimensioni: la separazione sacrale è insita nella perentoria affermazione di superiorità della funzione, qui stabilita dai simboli che accompagnano le figure. L’unità del mondo cristiano è invece rappresentata dalla rivelazione della stessa sacralità del potere che è incarnata in figure umanissime. Si tratta dell’umanità degli sguardi vivi, determinati, carismatici, quasi seducenti nella loro fissità superiore: “eccoci, noi siamo il potere, siamo i protettori della fede” sembrano affermare senza proferire parola. Un potere talmente chiaro da non aver bisogno d’altro che di quello sguardo così intenso rivolto verso il pubblico da figure che lo richiamano alla palesata potestà dell’investitura divina. Questa è la forza intrinseca dei mosaici di San Vitale: epifania che dischiude, squaderna un solido impianto ideologico di implacabile fondatezza e di non comune fascino. Estrema espressione del processo di elevazione divina entro il quale l’immagine del potere ha attraversato la trasformazione del ruolo imperiale, fino a coincidere con le più accentuate rappresentazioni della funzione regale in Oriente. Profondamente significativo in un’epoca di ricostruzione del concetto di potere e di incessante ricerca del suo fondamento, in Occidente.
- VI sec. d.C. Pareti laterali dell'abside della Basilica di San Vitale a Ravenna: L'imperatore Giustiniano ed i suoi più stretti dignitari; La Basilissa Teodora e la sua Corte
- in copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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Il pensiero magico di Jung
Jung il grande psicoanalista svizzero manifestò sempre un grande interesse per la grande tradizione magico alchemica. In Jung tale interesse divenne sempre più netto quando più si andò convincendo che oltre all’inconscio personale teorizzato da Freud in ogni essere umano esisteva uno strato ancora più profondo innato che poteva essere definito “inconscio collettivo”. Esso al contrario dell’inconscio personale aveva contenuti e comportamenti identici dappertutto e per tutti gli individui. L’inconscio collettivo può anche essere definito un substrato psichico comune di natura sopra personale presente in ogni individuo. Proprio nella prospettiva dell’inconscio collettivo Jung già cultore di Paracelso vede nell’alchimia una vera e propria anticipazione della moderna psicologia dell’inconscio. Di conseguenza egli interpreta l’alchimia in chiave simbolica. Lo psicoanalista svizzero convinto della storicità dell’alchimia mette chiaramente in luce il carattere compensatorio dell’alchimia rispetto agli aspetti d’ombra della tradizione religiosa filosofica e scientifica occidentale. L’alchimia viene da lui messa in rapporto con la tradizione gnostica nonché con quella dimensione esoterica che vede nei segni e nei fenomeni visibili la continua imprescindibile allusione a una dimensione che oggi viene chiamata inconscia. Per Jung in ogni caso tale dimensione non è mai stata completamente definibile e conoscibile. Se è vero che vi sono molte troppe cose che oltrepassano l’orizzonte della comprensione umana e che per questo ricorriamo costantemente all’uso di termini simbolici o immagini è anche vero che tutti i fatti della cosiddetta realtà diventano eventi psichici. Ma la natura di tali eventi psichici è inconoscibile in quanto la psiche non può conoscere la propria sostanza psichica. Per tale ragione ogni esperienza contiene un numero infinito di fattori sconosciuti per non dire del fatto che ogni oggetto concreto è sempre sconosciuto sotto certi aspetti dal momento che non siamo in grado di conoscere la natura sostanziale della materia in sé. Molti eventi rimangono così al disotto della soglia della coscienza cosicché il loro cuore segreto continua ad agire inosservato ripresentandosi sotto forma di sogno oppure come mito oppure pratica di cui la ragione cosciente difficilmente riesce a decifrare il senso. Pertanto ben precisi archetipi continuano a manifestarsi nelle forme più diverse come tendenze istintive che ripetono sempre lo stesso motivo. Tali archetipi non vanno intesi come forme statiche ma come fattori dinamici che si manifestano come forma di impulsi. Per Jung magia alchimia inconscio personale e sogno sono manifestazioni diverse di un medesimo complesso psichico ruotante intorno ad alcuni simboli fondamentali. Tali simboli fondamentali non sono mai stati inventati da questa o quella figura da questa o quella popolazione ma da ognuna di tali individualità storicamente determinate vengono in qualche modo ritrovati. Anche la magia e l’alchimia sono pratiche utili a portare a termine ciò che la natura ha lasciato incompleto. Proprio come pensava Paracelso. Entrambe implicano una intuizione del “lumen naturae” che agirebbe nel corpo invisibile. Infatti l’alchimista esegue la volontà di Dio e cioè che l’invisibile venga detto visibile. In Jung ritorna dunque la consapevolezza che nell’atteggiamento magico alchemico ma in fondo in ogni forma dell’agire sia essenziale la convinzione inconscia relative alla mancanza dell’unità. Lo psicologo svizzero afferma che l’anima è per natura religiosa se così non fosse se non si sapesse che nell’anima si trovano i valori supremi la psicologia non interesserebbe per nulla lo psicologo svizzero. A suo parere quelli che si definiscono religiosi dovrebbero prendere coscienza del divino quello che abita “ab origine” nella loro anima. Inoltre quelli che si definiscono religiosi dovrebbero anche prendere coscienza della contraddittorietà che è presente in tutti gli uomini nel loro intimo. Per Jung Budda Cristo e le diverse figure presenti nelle molte religioni che di fatto esistono nel mondo vanno considerati come simboli di quell’archetipo universale che Jung chiama il “Se”. Lo stesso archetipo è caratterizzato dall’unità dei contrari. Per Jung il Se è paradossalità assoluta dal momento che rappresenta sotto ogni riguardo e d’aspetto tesi e antitesi e contemporaneamente sintesi. In definitiva possiamo dire che non bisogna stupirsi dell’interesse di Jung nei riguardi dell’alchimia. Non dobbiamo dimenticare che per lo psicologo svizzero l’alchimia è una pratica il cui metodo consisteva nell’andare all’oscuro attraverso il sentiero del più oscuro nonché nell’andare all’ignoto attraverso il sentiero del più ignoto. Concludiamo tale articolo mettendo in evidenza che tematiche analoghe a quelle di Jung escono comunque dall’ambito della filosofia-psicologia e finiscono per affascinare un altro grande protagonista del Novecento europeo. Non si tratta di un filosofo o di uno psicologo ma di un’artista ovvero Andre Breton. Prof. Giovanni Pellegrino Read the full article
#AndreBreton#CarlGustavJung#filosofia-psicologia#inconsciocollettivo#lumennaturae#magicoalchemica#Paracelso#Psicoanalisi
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Testo: Eurofestival News
Eurovision 2024: Eric Saade con la kefiah, è scontro con l’EBU
La prima semifinale dell’Eurovision 2024 si è aperta con un numero legato a tre artisti del passato del concorso: Eleni Foureira, Eric Saade, Chanel.
Eurovision 2024: Eric Saade e la kefiah in mano
E proprio su Eric Saade si è concentrata tutta l’attenzione, in virtù di quanto accaduto nella sua esibizione in “Popular”, la canzone con cui è arrivato terzo nel 2011 con 185 punti. Sul lato musicale, va rimarcato come la versione messa in scena fosse nuova, e abbassata di un semitono, rispetto all’originale di Düsseldorf (e del Melodifestivalen di quello stesso anno).
Ciò che ha colpito, però. è quello che Eric Saade aveva in mano. Si trattava della kefiah, che si può definire anche kefiyah, keffiyah, kaffiyeh o keffiyeh, famoso copricapo della tradizione araba e mediorientale e diventata, nel tempo, importante anche nel contesto palestinese.
Non si può dimenticare, del resto, che il cantante trentatreenne di Kattarp è di origini palestinesi e libanesi, e per questo sente tantissimo tutto quello che sta accadendo nelle sue terre di origini. Non per caso, era stato particolarmente duro sia prima di essere annunciato come opening act che quando tale comunicazione è effettivamente giunta.
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I dieci danni che ci lasciò il '68
Mezzo secolo fa l'arroganza del (presunto) contropotere generò la dittatura chiamata "politicamente corretto"
Sono passati cinquant'anni dal '68 ma gli effetti di quella nube tossica così mitizzata si vedono ancora. Li riassumo in dieci eredità che sono poi il referto del nostro oggi.
SFASCISTA Per cominciare, il '68 lasciò una formidabile carica distruttiva: l'ebbrezza di demolire o cupio dissolvi, il pensiero negativo, il desiderio di decostruire, il Gran Rifiuto.
Basta, No, fuori, via, anti, rabbia, contro, furono le parole chiave, esclamative dell'epoca. Il potere destituente. Non a caso si chiamò Contestazione globale perché fu la globalizzazione destruens, l'affermazione di sé tramite la negazione del contesto, del sistema, delle istituzioni, dell'arte e della storia. Lo sfascismo diventò poi il nuovo collante sociale in forma di protesta, imprecazione, invettiva, e infine di antipolitica. Viviamo tra le macerie dello sfascismo.
PARRICIDA La rivolta del '68 ebbe un Nemico Assoluto, il Padre. Inteso come pater familias, come patriarcato, come patria, come Santo Padre, come Padrone, come docente, come autorità. Il '68 fu il movimento del parricidio gioioso, la festa per l'uccisione simbolica del padre e di chi ne fa le veci. Ogni autorità perse autorevolezza e credibilità, l'educazione fu rigettata come costrizione, la tradizione fu respinta come mistificazione, la vecchiaia fu ridicolizzata come rancida e retrò, il vecchio perse aura e rispetto e si fece ingombro, intralcio, ramo secco. Grottesca eredità se si considera che oggi viviamo in una società di vecchi. Il giovanilismo di allora era comprensibile, il giovanilismo in una società anziana è ridicolo e penoso nel suo autolesionismo e nei suoi camuffamenti.
INFANTILE Di contro, il '68 scatenò la sindrome del Bambino Perenne, giocoso e irresponsabile. Che nel nome della sua creatività e del suo genio, decretato per autoacclamazione, rifiuta le responsabilità del futuro, oltre che quelle del passato. La società senza padre diventò società senza figli; ecco la generazione dei figli permanenti, autocreati e autogestiti che non abdicano alla loro adolescenza per far spazio ai bambini veri. Peter Pan si fa egocentrico e narcisista. Il collettivismo originario del '68 diventò soggettivismo puerile, emozionale con relativo culto dell'Io. La denatalità, l'aborto e l'oltraggio alla vecchiaia trovano qui il loro alibi.
ARROGANTE che fa rima con ignorante. Ognuno in virtù della sua età e del suo ruolo di Contestatore si sentiva in diritto di giudicare il mondo e il sapere, nel nome di un'ignoranza costituente, rivoluzionaria. Il '68 sciolse il nesso tra diritti e doveri, tra desideri e sacrifici, tra libertà e limiti, tra meriti e risultati, tra responsabilità e potere, oltre che tra giovani e vecchi, tra sesso e procreazione, tra storia e natura, tra l'ebbrezza effimera della rottura e la gioia delle cose durevoli.
ESTREMISTA Dopo il '68 vennero gli anni di piombo, le violenze, il terrorismo. Non fu uno sbocco automatico e globale del '68 ma uno dei suoi esiti più significativi. L'arroganza di quel clima si cristallizzò in prevaricazione e aggressione verso chi non si conformava al nuovo conformismo radicale. Dal '68 derivò l'onda estremista che si abbeverò di modelli esotici: la Cina di Mao, il Vietnam di Ho-Chi-Minh, la Cuba di Castro e Che Guevara, l'Africa e il Black power. Il '68 fu la scuola dell'obbligo della rivolta; poi i più decisi scelsero i licei della violenza, fino al master in terrorismo. Il '68 non lasciò eventi memorabili ma avvelenò il clima, non produsse rivoluzioni politiche o economiche ma mutazioni di costume e di mentalità.
TOSSICO Un altro versante del '68 preferì alle canne fumanti delle P38 le canne fumate e anche peggio. Ai carnivori della violenza politica si affiancarono così gli erbivori della droga. Il filone hippy e la cultura radical, preesistenti al '68, si incontrarono con l'onda permissiva e trasgressiva del Movimento e prese fuoco con l'hashish, l'lsd e altri allucinogeni. Lasciò una lunga scia di disadattati, dipendenti, disperati. L'ideologia notturna del '68 fu dionisiaca, fondata sulla libertà sfrenata, sulla trasgressione illimitata, sul bere, fumare, bucarsi, far notte e sesso libero. Anche questo non fu l'esito principale del '68 ma una diramazione minore o uscita laterale.
CONFORMISTA L'esito principale del '68, la sua eredità maggiore, fu l'affermazione dello spirito radical, cinico e neoborghese. Il '68 si era presentato come rivoluzione antiborghese e anticapitalista ma alla fine lavorò al servizio della nuova borghesia, non più familista, cristiana e patriottica, e del nuovo capitale globale, finanziario. Attaccarono la tradizione che non era alleata del potere capitalistico ma era l'ultimo argine al suo dilagare. Così i credenti, i connazionali, i cittadini furono ridotti a consumatori, gaudenti e single. Il '68 spostò la rivoluzione sul privato, nella sfera sessuale e famigliare, nei rapporti tra le generazioni, nel lessico e nei costumi.
RIDUTTIVO Il '68 trascinò ogni storia, religione, scienza e pensiero nel tribunale del presente. Tutto venne ridotto all'attualità, perfino i classici venivano rigettati o accettati se attualizzabili, se parlavano al presente in modo adeguato. Era l'unico criterio di valore. Questa gigantesca riduzione all'attualità, alterata dalle lenti ideologiche, ha generato il presentismo, la rimozione della storia, la dimenticanza del passato; e poi la perdita del futuro, nel culto immediato dell'odierno, tribunale supremo per giudicare ogni tempo, ogni evento e ogni storia.
NEOBIGOTTO Conseguenza diretta fu la nascita e lo sviluppo del Politically correct, il bigottismo radical e progressista a tutela dei nuovi totem e dei nuovi tabù. Antifascismo, antirazzismo, antisessismo, tutela di gay, neri, svantaggiati. Il '68 era nato come rivolta contro l'ipocrisia parruccona dei benpensanti per un linguaggio franco e sboccato; ma col lessico politicamente corretto trionfò la nuova ipocrisia. Fallita la rivoluzione sociale, il '68 ripiegò sulla rivoluzione lessicale: non potendo cambiare la realtà e la natura ne cambiò i nomi, occultò la realtà o la vide sotto un altro punto di vista. Fallita l'etica si rivalsero sull'etichetta. Il p.c. è il rococò del '68.
SMISURATO Cosa lascia infine il '68? L'apologia dello sconfinamento in ogni campo. Sconfinano i popoli, i sessi, i luoghi. Si rompono gli argini, si perdono i limiti e le frontiere, il senso della misura e della norma, unica garanzia che la libertà non sconfini nel caos, la mia sfera invade la tua. Lo sconfinamento, che i greci temevano come hybris, la passione per l'illimitato, per la mutazione incessante; la natura soggiace ai desideri, la realtà stuprata dall'utopia, il sogno e la fantasia che pretendono di cancellare la vita vera e le sue imperfezioni... Questi sono i danni (e altri ce ne sarebbero), ma non ci sono pregi, eredità positive del '68? Certo, le conquiste femminili, i diritti civili e del lavoro, la sensibilità ambientale, l'effervescenza del clima e altro... Ma i pregi ve li diranno in tanti. Io vi ho raccontato l'altra faccia in ombra del '68. Noi, per dirla con un autore che piaceva ai sessantottini, Bertolt Brecht, ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati. Alla fine, i trasgressivi siamo noi.
Marcello Veneziani
Editorialista del Tempo, sul '68 ha scritto Rovesciare il '68 (Mondadori, anche in Oscar, 2008)
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La fine del Giudaismo
Non s’intende il senso di quanto sta oggi avvenendo in Israele, se non si comprende che il Sionismo costituisce una doppia negazione della realtà storica del Giudaismo. Non soltanto infatti, in quanto trasferisce agli ebrei lo Stato-nazione dei cristiani, il Sionismo rappresenta il culmine di quel processo di assimilazione che, a partire della fine del XVIII secolo, è andato progressivamente cancellando l’identità ebraica. Decisivo è che, come ha mostrato Amnon Raz-Krakotzkin in uno studio esemplare, a fondamento della coscienza sionista sta un’altra negazione, la negazione della Galut, cioè dell’esilio come principio comune a tutte le forme storiche del Giudaismo come noi lo conosciamo. Le premesse della concezione dell’esilio sono anteriori alla distruzione del Secondo Tempio e sono già presenti nella letteratura biblica. L’esilio è la forma stessa dell’esistenza degli ebrei sulla terra e l’intera tradizione ebraica, dalla Mishnah al Talmud, dall’architettura della sinagoga alla memoria degli eventi biblici, è stata concepita e vissuta nella prospettiva dell’esilio. Per un ebreo ortodosso, anche gli ebrei che vivono nello stato d’Israele sono in esilio. E lo Stato secondo la Torah, che gli ebrei aspettano all’avvento del Messia, non ha nulla a che fare con uno stato nazionale moderno, tanto che al suo centro stanno proprio la ricostruzione del Tempio e la restaurazione dei sacrifici, di cui lo stato d’Israele non vuole nemmeno sentire parlare. Ed è bene non dimenticare che l’esilio secondo il Giudaismo non è soltanto la condizione degli ebrei, ma riguarda la condizione manchevole del mondo nella sua integrità. Secondo alcuni cabalisti, fra cui Luria, l’esilio definisce la situazione stessa della divinità, che ha creato il mondo esiliandosi da sé stesso e questo esilio durerà fino all’avvento del Tiqqun, cioè della restaurazione dell’ordine originario.
È proprio questa accettazione senza riserve dell’esilio, con il rifiuto che comporta di ogni forma presente di statualità, che fonda la superiorità degli ebrei rispetto alle religioni e ai popoli che si sono compromessi con lo Stato. Gli ebrei sono, insieme agli zingari, il solo popolo che ha rifiutato la forma stato, non ha condotto guerre e non si è mai macchiato del sangue di altri popoli.
Negando alla radice l’esilio e la diaspora in nome di uno stato nazionale, il Sionismo ha tradito pertanto l’essenza stessa del Giudaismo. Non ci si dovrà allora meravigliare se questa rimozione ha prodotto un altro esilio, quello dei palestinesi e ha portato lo stato d’Israele a identificarsi con le forme più estreme e spietate dello Stato-nazione moderno. La tenace rivendicazione della storia, da cui la diaspora secondo i sionisti avrebbe escluso gli ebrei, va nella stessa direzione. Ma questo può significare che il Giudaismo, che non era morto a Auschwitz, conosce forse oggi la sua fine.
Giorgio Agamben, 30 settembre 2024
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Dici pub a Dublino. Dici "O’Donogue’s". Il pub di Merrion Row è una vera istituzione nella capitale irlandese. La sua storia recente è assolutamente associata alla musica tradizionale irlandese: proprio qui hanno esordito ad inizio degli anni '60 i mitici "The Dubliners". All'interno del pub, nell'angolo dove ancora oggi si tengono le session di irish traditional music, spiccano per l'appunto le foto di Ronnie Drew, Luke Kelly e degli altri membri della storica band.Ma non solo. Le mura di "O'Donoghue's" hanno ospitato altri artisti irlandesi di tutto rispetto. Christy Moore, Andy Irvine e Phil Lunott su tutti. Con questa tradizione alle spalle risulta facile comprenderne la popolarità.Il pub, situato in pieno centro nei pressi di St Stephen's Green, nonostante sia diventato un'attrazione turistica riconosciuta, conserva ancora quell'atmosfera originaria made in Ireland. Violini, bodhran, chitarre, tin whistle. E poi pinte, pinte, pinte a non finire.Ill bancone di "O'Donoghue's" avrebbe molto da raccontare. 🇮🇪🍻🥃🎻
© Irish tales from Rome
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Il posto delle fragole, Ingmar Bergman, 1957
Le fragole e il comune senso del pudore
C'è un bosco, al limitare del grano, uno di quelli come sarebbe la Pianura Padana se non ci fossero gli uomini. È nel terreno dei Meregalli, incolto da anni, abbandonato dalla tradizione contadina e donazione inconsapevole alle fratellanze amorose di paese.
C'è un angolo segreto tra pioppi, cespugli e frasche di canale. Ci vanno sempre quei due, li vedo che si infrattano lenti mano nella mano, giocano, intrecciano, si baciano e ridono. Saltellano, ballano, in braccio!
Premeditano negli occhi complici, condividono e si chinano docili, si adagiano nel sottobosco, a spogliarsi e mangiar fragole nascoste, mentre ascoltano lo sciacquio del canale e delle dita tra la cosce.
Si spremono i frutti, nelle bocche e sulla pelle e ne leccano lo zucchero rosastro, tra sangue e ambrosia nel sudore profumato di pelle.
Hanno gli occhi belli, quando si guardano.
Fanno piano, sempre, hanno profondo rispetto per il silenzio, per i rumori del loro amarsi. Cresce, mugola, respira affannata, fino a quelle urla strozzate di voglia, che restano nell'intimità della vergogna, attutite dal pudore del bosco.
Scherzano su quello sperma nella terra fertile, cercando un baobab ogni volta che tornano. Sempre.
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